venerdì 27 maggio 2011

L'era della comunicazione multiscreen: Connessi col mondo, isolati in famiglia.


Oggi rimbalzo l'interessante articolo a firma Barbara Millucci
che ha usato le parole giuste per "fotografare" i nostri malsani comportamenti quotidiani... inducendomi ad alcune riflessioni.
Vi consiglio di seguire il mio esempio e... proseguire nella lettura.


UN SALOTTO. UN SOFÀ. UNA FAMIGLIA. La tv rigorosamente off, 4 monitor (pardon: tablet) accesi. È la fotografia delle nuove famiglie contemporanee che trascorrono il dopo cena, più o meno fino alla mezzanotte, sempre più "connesse" fuori casa, ma del tutto "disconnesse" al loro interno. I nuovi nuclei individuali dell’era 3.0, visto che il web 2.0 sembra già preistoria, non hanno più nulla a che vedere con il vecchio focolare domestico, dove ci si rifugiava dopo una giornata piena di tensioni sul lavoro o di brutti voti presi a scuola. Sono passati i tempi in cui la sera si stava insieme e si commentavano le notizie dei tg, tenendo magari compagnia alla nonna sulla sedia 

a dondolo, tra una telefonata di un parente lontano e le discussioni 
in casa su chi dovesse lavare i piatti o sparecchiare. Il giorno dopo 
ci si svegliava quasi certamente con una marcia in più. Oggi tutto questo è out. Ognuno ha il proprio device. Si sta tutti e 4 insieme 
sul sofà, ma si è emotivamente soli. Nella stessa stanza, ma in mondi obliqui e paralleli. Ognuno perso nel cyberspazio del proprio laptop. Liquido e sfuggente, come direbbe il filosofo polacco Zygmunt Bauman.

Secondo il New York Times, nell’era del wifi la famiglia 3.0 si delinea sempre più drammaticamente così: il figlio di 8 anni spaparanzato in poltrona incollato a giocare, con la tavoletta tascabile sulle ginocchia, a Mario Kart wii; accanto la sorella, poco più grande, che consulta 

in modo convulso love calculator, per calcolare la corrispondenza amorosa, sul touchscreen dell’iPhone rosa, rivestito di brillantini. Nell’angolo, il padre attento a scommettere su giochi e partite on line su quello che fino a qualche anno fa era il pc di casa, mentre la madre chatta su Facebook con le amiche d’infanzia, scambiandosi ricette 
e commentando con il pollice all’insù del "mi piace" foto e siti improbabili. Un tempo si dialogava e si era presenti nella sfera dell’altro e dei figli. Oggi la distanza si è accentuata. Si vive 
in mondi talmente distanti tra loro, che hanno smesso di relazionarsi, mandando la società in tilt.

La comunicazione multiscreen cambia la nostra sfera domestica, tagliano corto i sociologi. La cultura digitale rivoluziona il nostro agire quotidiano. Il marito preferisce comunicare con la moglie seduta a un metro di distanza con una mail. Lei replica felice e soddisfatta, indaffarata a stare dietro a tutte le schermate aperte, come quelle della lista della spesa open (sostituisce la vecchia lavagnetta con il pennarello) che ogni familiare può consultare in tempo reale, aggiungendo quello di cui ha bisogno: dal bagno schiuma per la palestra, al latte, al quaderno a righe, fino alle sigarette per il papà. 

E mentre con la mano destra si chatta, con la sinistra si riesce anche 
a consultare il BlackBerry ogni 5 minuti. Non si sa mai. Il cugino lontano sta per prender parte a un nuovo flash mob all’Università, mentre il figlio potrebbe aver aggiunto un nuovo post sul suo blog.

Un popolo di scimmie, ci ha definito il Premio Nobel 

per la letteratura, Mario Vargas Llosa: «internet ha messo in soffitta 
la grammatica, l’ha liquidata, per cui si vive in una specie di barbarie sintattica. Se scrivi in quel modo è perché parli in quel modo. 
Se parli così è perché pensi così, e se pensi così è perché pensi come una scimmia». Come dire, più ci si evolve in questa visione post-orwelliana e più la nostra mente regredisce all’età della pietra. Sarà poi così? In fondo i personal media in questi ultimi mesi hanno permesso anche battaglie democratiche importanti. È possibile che non ci sia proprio nulla da salvare? Per Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università La Sapienza 
di Roma «la connessione non deve essere un pretesto per isolarsi. Quando in famiglia non si va d’accordo, la tavoletta diventa una scusa per non affrontare la realtà. L’ideale sarebbe avere una sola tecnologia con tutti i parenti intorno, con mamma e papà che insegnano ai figli come usarla, aggiornando in primo luogo se stessi». In una società convergente come questa, il ruolo e la responsabilità dei genitori sono aumentati rispetto al passato, quando l’ambiente esterno condivideva i valori e li sosteneva nelle loro scelte educative. Oggi c’è bisogno di una guida. Alla base di questi nuovimodelli cognitivi, c’è una collettività di interessi che cresce a dismisura ogni giorno. Le persone si "autoconfigurano" continuamente, nonostante siano soggette a stress tecnologico, senza esser più in grado di dire dei sani no. Per Roberto Grandi - professore di Sociologia 
dei Processi Culturali all’Università di Bologna - «i rapporti interpersonali sono in concorrenza con quelli virtuali, ma lo spazio virtuale non sostituisce gli spazi fisici».

Concorda l’esperto di tecnologia Carlo Infante: «Una tecnologia è desiderabile perché rimbalza indietro come una palla. Tutti i sistemi touchscreen inducono una corrispondenza, un elemento di contagio che ha a che vedere con il nostro desiderio». Ma le tecnologie alla fine non sono altro che elettrodomestici. E se ce l’ha fatta Bin Laden a vivere così tanto a lungo senza wireless, perché non dovremmo farcela noi alle prese dopo tutto con un tran tran di vita quotidiana, 

lo stesso da decenni? Ai tablet, per fortuna, c’è ancora chi continua a preferire le scene di vita domestica, come quelle dipinte da Vermeer.

da: IO DONNA, 26 maggio 2011


 

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